I fatti di marzo 2001 a Napoli sono indicativi per comprendere il senso complessivo di quell’anno terribile ed allo stesso tempo pieno di speranze in un mondo diverso e possibile. Indicativi soprattutto per tre ordini di motivi: innanzitutto perché – anche se non fu certo il primo episodio a livello internazionale – diede pienamente il senso della strategia statale contro un enorme movimento di massa ed il suo sogno di un ordine sociale altro, un movimento che si opponeva con tutte le sue forze alla messa in atto degli “accordi di libero mercato” che, messi in atto, hanno distrutto le esistenze del proverbiale 99% dell’umanità; poi, dal momento che allora era presente un governo di centrosinistra e non uno di destra come fu con i fatti genovesi di alcuni mesi dopo, la situazione napoletana rende in pieno l’idea che ogni governo fosse succube alle logiche neoliberiste e di repressione contro chi a queste logiche vi si opponeva; infine, perché mostrò, anche prima di Genova, il fallimento di una strategia politica tutta mediatica rappresentata soprattutto dall’area delle cosiddette “tute bianche”.
Cominciamo dal primo aspetto. Il movimento contro la globalizzazione neoliberista era nato nel novembre 1999, con la contestazione al vertice del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) a Seattle. Fu un movimento inaspettato sia nelle sue dimensioni di massa, sia nelle sue strategie organizzative, che vedeva nell’organizzazione consensuale e nei “block” – momenti organizzativi delle diverse strategie di lotta in cui ciascun “block” si impegnava a non coinvolgere nelle proprie azioni gli altri – la sua caratteristica. Il movimento era poi esploso in tutto il mondo, crescendo sempre di più, agendo ad ogni livello del sociale e crescendo di continuo, aggregando ogni forma dell’opposizione sociale: associazioni, movimenti, partiti sia laici sia religiosi – anche il movimento anarchico era largamente coinvolto.
I vertici mondiali dei padroni della Terra in giro per il mondo divennero, da occasioni di incontri formali plauditi dai media, un crescendo continuo di mobilitazioni e di contestazioni.[1] L’1% dell’umanità, convinta della logica della “fine della Storia” dopo il crollo dei regimi dell’Est, aveva trovato un avversario inatteso e di enormi dimensioni, che rigettava il mondo che questi stavano preparando, un avversario che attraversava trasversalmente l’intera rete sociale di movimenti, associazioni e quant’altro che agivano non più disuniti ma come un movimento complessivo e determinato.
Napoli mostrò la scelta strategica dei potenti della Terra nei confronti del movimento: la repressione brutale e sanguinosa, il terrore puro sia verso gli attivisti sia verso il resto del corpo sociale sempre più attratto dal movimento. Se a Napoli non vi fu il morto fu per puro caso: la piazza fu completamente circondata, senza vie di fuga, si impedì anche prima degli scontri ai manifestanti che, per un qualunque motivo, volevano allontanarsene di farlo, ci fu anche l’equivalente della Diaz nei confronti dei manifestanti rinchiusi nella caserma Raniero. Il tutto condito dall’atteggiamento dei media che descrissero l’avvenuto come “scontri” innescati dai manifestanti, colpevolizzandoli completamente per l’avvenuto.[2]
Passiamo al secondo aspetto. A gestire il tutto non c’era il governo Berlusconi. Al governo vi era il centro-sinistra: Presidente del Consiglio era Giuliano Amato che era successo a Massimo D’Alema. Prima ancora di D’Alema c’era stato il governo di Romano Prodi caduto nell’ottobre ’98. Ministro dell’Interno del governo Amato in quel momento era Enzo Bianco. L’identità strutturale tra ogni forma di governo dei paesi del mondo fu perciò plateale nei fatti di Napoli, mentre la circostanza che durante la mattanza di Genova il fascista Gianfranco Fini, vicepresidente del consiglio, si trovasse al Forte di San Giuliano, sede del Comando dei Carabinieri, confuse un po’ le acque e ridiede un minimo di verginità politica ad una “sinistra” tutta interna, invece, al progetto neoliberista.
I fatti del marzo napoletano, infine, mostrarono il fallimento di una strategia tutta mediatica presente in determinate aree del movimento, dove si cercava uno scontro di piazza “simulato” per “bucare lo schermo”. Una strategia che, di là di tutte le altre critiche possibili, impedì la comprensione piena delle scelte repressive e sanguinarie che il potere cominciava a mettere in atto e che si mostrarono in pieno nell’estate genovese.
Nel complesso, i fatti del marzo napoletano avrebbero dovuto essere un monito per un ripensamento della strategia del movimento ma così, purtroppo, non fu. Di lì a poco, poi, ci furono i fatti dell’11 settembre e la strategia della “guerra preventiva” trovò un movimento allo sbando: dopo Genova, il prossimo momento di mobilitazione nazionale sarebbe dovuto essere nuovamente a Napoli ma, all’ultimo momento, la rete nazionale si dissociò, lasciando sola la rete campana. La cosa riuscì benissimo lo stesso, con un’attenzione rivolta soprattutto all’aspetto comunicativo ed all’aggregazione nei confronti del sociale. Sarebbe una storia napoletana anch’essa da raccontare ma, in mancanza di aspetti tali da “bucare lo schermo”, ancor più dimenticata. Soprattutto poteva essere un’indicazione strategica per l’intero movimento che, però, non la colse, limitandosi a commemorazioni di un passato glorioso e sciogliendosi pian piano.
Enrico Voccia
NOTE
[1] Tra le più eclatanti ricordiamo la fiera delle Biotecnologie Tebio a Genova nel maggio 2000, il vertice dell’OCSE a Bologna nel giugno 2000, il vertice del Fondo Monetario Internazionale a Praga nel settembre 2000, il vertice dell’Unione Europea a Nizza nel dicembre 2000, il vertice del World Economic Forum di Davos nel gennaio 2001.
[2] Vedi ad esempio https://www.repubblica.it/online/politica/globalforumdue/incidenti/incidenti.html.